En El Muelle De San Blas è il quarto singolo, nonché ottava traccia, estratto dall'album Sueños líquidos dei Maná nel 1997.
Il testo della canzone si ispira alla storia di Rebeca Mendez Jimenez di Puerto Vallarta.
Da giovane Rebeca si fidanzò con Manuel, un ragazzo di Puerto Vallarta, poco prima del matrimonio questi partì per una battuta di pesca, promettendo all'amata di tornare al più presto.
Sfortunatamente il peschereccio sul quale il ragazzo si imbarcò non fece mai ritorno.
Rebeca, disperata, continuò ad aspettarlo al Muelle de San Blas, vestita in abito da sposa.
La donna morì nel settembre del 2012, dopo aver aspettato il suo grande amore per tutta la vita. Durante un viaggio nella cittadina Puerto Vallarta, il cantante dei Maná conobbe l'anziana Rebeca e, ascoltata la sua storia, decise di scrivere questa canzone.
________________________________________
Traduzione Italiana
“Lei salutò il suo amore
lui partì con una nave nel porto di San Blás
le giurò che sarebbe tornato e singhiozzava
lei giurò che l’avrebbe aspettato
passarono mille lune
e lei stava sempre al porto, ad aspettare
molte notti si annidarono
si annidarono fra i suoi capelli e le sue labbra
Indossava lo stesso vestito
così che se lui fosse tornato non si sarebbe sbagliato
Te ne accorgi. Sì, te ne accorgi se una persona cambia, inutile far finta di niente, se gli abbracci si dimezzano, se i sorrisi spariscono o sono solo delle velature del sorriso, se le mani non si cercano più, se i silenzi aumentano, inutile pensare che vada tutto bene, niente va bene, anzi, va malissimo e devi fartene una ragione.
L’Albero Sacro, condivide con la Ruota di Medicina, il primato di simbolo più potente della cultura nativa americana.
Per tutte le genti della terra, il Creatore ha piantato un Albero Sacro sotto il quale potersi riunire per trovare guarigione, potenza, saggezza e sicurezza. Le radici di questo albero penetrano profondamente nel cuore di Madre Terra. I suoi rami sono protesi verso l’alto come mani in preghiera a Padre Cielo. I frutti dell’albero sono le buone cose che il Creatore ha dato alla gente: gli insegnamenti. Mostrano la verso Amore, Compassione, Generosità, Pazienza, Saggezza, Giustizia, Coraggio, Rispetto, Umiltà e molti altri straordinari doni.
L’albero Sacro, dunque, rappresenta la vita, i cicli del tempo, la Terra e l’Universo. I significati dell’Albero Sacro riflettono gli insegnamenti della Ruota di Medicina.
Del resto, l’albero è un simbolo universale e appartiene a differenti tradizioni: in numerose culture riveste il ruolo di collegamento tra la terra e il cielo poiché s’innalza Innalzandosi nel Centro del cerchio per raggiungere la sfera divina. Come scrive lo studioso di religioni Mircea Eliade in Immagini e simboli:
La variante più diffusa del simbolismo del Centro è l’Albero Cosmico che si erge al centro dell’Universo e che sostiene a mo’ di asse i Tre Mondi (quello celeste, quello terrestre e quello infernale). L’india vedica, l’antica Cina, la mitologia germanica al pari delle religioni “primitive” conoscono, sotto forme diverse, questo Albero Cosmico, le cui radici sprofondano fino agli Inferni e i cui rami toccano il Cielo… In generale si può dire che la maggioranza degli alberi sacri e rituali che incontriamo nella storia delle religioni sono soltanto repliche, copie imperfette di questo archetipo esemplare: l’Albero del Mondo. Questo vuol dire che tutti gli alberi sacri sono ritenuti trovarsi al Centro del Mondo o che tutti gli alberi rituali o pali che vengono consacrati prima o durante una cerimonia, sono in certo modo proiettati magicamente al Centro del Mondo.
Nella tradizione ebraico-cristiana, al centro del Paradiso Terrestre sorge l’Albero della Vita, da cui si diramano i quattro fiumi che dirigono verso i quattro punti cardinali, essi stessi perimetri del cerchio che racchiude l’Eden. Come i quattro significati dell’Albero Sacro e la Ruota di Medicina, ecco che ancora si ritrova il simbolismo del Centro, del Cerchio e del Quattro, comune a moltissime tradizioni.
Simbolo dell’unione tra cielo e terra, l’Albero diventa anche il simbolo della croce quando il suo tronco e i suoi rami vengono letti come rappresentazione dell’asse verticale e dell’asse orizzontale della croce, il Simbolo per eccellenza, l’unione di spazio-tempo e eternità. Scrive René Guénon nel Simbolismo della Croce:
Tale albero s’innalza nel centro del mondo, o meglio nel centro di un mondo, vale a dire nel centro dell’ambito nel quale si sviluppa uno stato di esistenza come lo stato umano.
L’Albero Sacro è il simbolo della vita che ciclicamente si rinnova, dell’evoluzione cosmica che perpetuamente diviene, muta, si manifesta nella sua irriducibile complessità. Ma è anche il simbolo dell’ascensione dalla Terra al Cielo, dalla condizione di caducità a quella di definitività.
I quattro significati
Come si è accennato, per i nativi americani l’albero sacro ha quattro significati principali: protezione, nutrimento, crescita, interezza.
1) Protezione: l’albero sacro protegge dal sole, offre il legno per costruire le case e riscaldare l’uomo durante la notte e l’inverno. L’albero sacro è soprattutto un luogo che protegge e ripara, il luogo della contemplazione.
2) Nutrimento: l’albero sacro ci nutre con i suoi frutti. Il frutto dell’albero che nasce dal centro della terra indica anche l’intima relazione che sussiste tra la dimensione fisica, materiale, e quella spirituale.
3) Crescita: l’albero sacro cresce, con la rigogliosità dei suoi rami, dal Centro del Mondo. Esso simboleggia dunque la crescita potenziale dell’uomo, che si realizza nella consapevolezza della propria relazione con tutte le cose.
4) Interezza: l’albero sacro rappresenta anche la possente unità cosmica che si manifesta in tutte le cose; dalla moltitudine e magnificenza dei suoi rami e delle sue foglie, cioè dalla molteplicità delle cose, l’albero ridiscende lungo il suo tronco fino al nucleo centrale, punto di inizio-fine della sua esistenza, senso assoluto del suo divenire: il mistero del Grande Spirito.
"Voi cominciate a lavorare sodo fin da piccoli, e lavorate sino a che siete grandi, e poi cominciate di nuovo a lavorare. E lavorate per tutta la vita. Poi, quando avete finito, morite lasciandovi tutto alle spalle. Questa noi la chiamiamo schiavitù.
Voi siete schiavi dal momento in cui cominciate a parlare sino a quando morite; noi invece siamo liberi come l'aria.
Abbiamo bisogno di ben poche cose, e non è difficile procurarsele.
Il fiume, il bosco, la pianura ci danno tutto quello di cui abbiamo bisogno, e noi non saremo mai schiavi, né manderemo i nostri bambini nelle vostre scuole, dove possono solo imparare a diventare come voi."
Capo Guerriero-Cadette-Apache Mescalero
Al contrario nostro, gli Indiani, manifestarono fin da subito ripudio e disprezzo verso il dogma occidentale del "lavoro tutta la vita", se non lavoro non mangio, se non lavoro non ho diritto alla vita, se non lavoro sono un parassita della società.
E' giusto che tutti sappiano che gli indiani lavoravano lo stretto necessario per vivere, e probabilmente si parla di poche ore al giorno, il resto del tempo era dedicata alla saggezza, ai canti, ai balli, agli incontri d'amore, alle cavalcate solitarie nella prateria, all'esplorazione della natura, insomma a quello che noi chiamiamo "tempo libero" e di cui possiamo godere solo un giorno la settimana.
I nativi americani odiano il lavoro e non perché siano degli scansafatiche (termine utilizzato dalla massa moderna per etichettare un non-adattato al sadico culto della fatica), ma perché amanti della libertà, un genere di libertà che noi europei abbiamo conosciuto illusoriamente solo negli anni 60 con gli Hippie, dove si poteva girare il mondo ancora senza tanti passaporti, carte d'identità e ogni sorta di diavoleria spacciata dai mercanti del potere per "sicurezza".
Ecco, gli indiani erano ancora più liberi, potevano andare dovunque senza chiedere il permesso, potevano vivere senza chiedere il permesso, le tasse allora non esistevano, tanto meno lo Stato, le banche, la polizia, le frontiere, gli eserciti, la Chiesa ecc ecc.
Ne consegue che in un mondo davvero libero come era il loro, prima del nostro arrivo "civilizzante", la sola idea di passare 8-9 ore al giorno a lavorare, svolgendo mansioni monotone e noiose, fosse l'ultima cosa che gli passasse per la testa di fare.
Dovremmo avere tutti delle ore da poter dedicare a noi stessi, alle nostre passioni, alla famiglia e al relax, basterebbe poco a migliorare la qualità della vita di ognuno, in fondo la riduzione dell’orario di lavoro permetterebbe l’assunzione di un’altra persona con un minimo sforzo da parte sia del lavoratore che del datore di lavoro, e questo garantirebbe non solo una migliore politica del lavoro ma anche un grande guadagno in fatto di salute e piacere di vivere.
Tutti hanno il diritto e il dovere di lavorare, sopratutto per vivere dignitosamente, ma non al prezzo che stiamo pagando oggi, attualmente non è neppure pensabile vivere come gli Indiani d’America, lavorando solo un paio d’ore al giorno, ma una via di mezzo che lasci il tempo di rallentare, di assaporare la vita quando si ha l’età per farlo sarebbe un’ottima soluzione.
E’ inutile lavorare così tanto per andare incontro alla fine terrena della nostra vita e perdere gran parte del fiore della vita.
Non è giusto aver vissuto in una forzata schiavitù concettuale e fisica!
È intonata dal personaggio di Calaf all'inizio del terzo atto. Immerso nella notte di Pechino, in totale solitudine, il "Principe ignoto" attende il sorgere del giorno, quando potrà finalmente conquistare l'amore di Turandot, la principessa di ghiaccio.
Il primo tenore a cantarla è stato Miguel Fleta nel 1926. Altri grandi tenori a cantarla sono stati Giacomo Lauri-Volpi, Franco Corelli, Richard Tucker, Flaviano Labò, Plácido Domingo, Daniele Barioni, Lando Bartolini, Luciano Pavarotti, Marcello Giordani, Salvatore Licitra, Marco Berti e Roberto Alagna.
Son dovuto passare attraverso tanta sciocchezza, tanta bruttura, tanto errore, tanto disgusto e delusione e dolore, solo per ridiventare bambino e poter ricominciare da capo.